E’ arduo affrontare, in questo spazio, il tema dei gruppi nomadi in Madagascar, e per varie ragioni. In primis, perché si dovrebbe parlare più propriamente di popoli semi-nomadi: quelli che praticano nomadismo solo per alcune settimane l’anno, e per le loro attività di sussistenza. E’ il caso dei pescatori Vezo, noti come i «nomadi del mare», o degli allevatori Bara, che vivono negli altipiani del Sud, oppure dei Mikea. Tra l’altro costoro sono considerati ufficialmente gli ultimi indigeni che vivono nel Paese: una definizione che i più recenti studi antropologici invero contestano, sostenendo che il loro presunto primitivismo sia frutto di una visione idealizzata. In secondo luogo, mentre alcuni gruppi semi-nomadi corrispondono a un’etnia ben definita (Vezo e Bara), la maggioranza degli antropologi preferisce classificare i Mikea come un sottogruppo dei Vezo.
Premesso ciò, consigliamo un interessante contributo, che don Renato Rosso ha pubblicato sul portale della “Gazzetta d’Alba”. Nel descrivere un progetto che ha seguito in loco, il sacerdote sa, infatti, svelarci la quotidianità dei Bara, meglio di tanti studiosi. Segue l’inizio del suddetto servizio, dal titolo «Tra le montagne dei nomadi Bara è successo il miracolo di un canneto trasformato in risaia». «Ho appena ricevuto notizie dal francescano padre Pascal, che mi aggiorna su un progetto con i Bara del Madagascar».