In seguito al recente volo di rimpatrio – dal Kuwait al Madagascar – di 176 ex lavoratrici domestiche in condizioni di vulnerabilità, molti osservatori hanno fatto notare che per imbattersi nella schiavitù moderna (o nel lavoro in condizioni analoghe alla schiavitù) non c’è bisogno di allontanarsi migliaia di chilometri dal Paese. E del resto molti studi avvalorano la tesi. A novembre scorso, ad esempio, fu pubblicata la notizia secondo cui cinque milioni di bambini svolgono faccende domestiche – le mpanampy o solafa – e il 39% di loro (1.950.000) ne fa un lavoro a tempo pieno: un fenomeno riconducibile alla schiavitù moderna, (e alla servitù, oppure lavoro servile, forzato, o obbligatorio).
Inoltre un documento ministeriale del settembre 2017 riporta la stima secondo cui otto lavoratori su dieci sono pagati meno rispetto al salario minimo legale (l’87,1% delle donne e il 75,8 degli uomini): un altro caso che può rientrare nell’esclavage moderne. Va però aggiunto che il Madagascar, nel giugno 2019, ha ratificato (34° Paese a farlo) il Protocollo dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sul lavoro forzato: il “Protocole de 2014 à la convention (n° 29) sur le travail forcé, 1930”. In base ad esso, i Paesi devono adottare misure efficaci per prevenire il lavoro forzato, proteggerne le vittime e garantire loro l’accesso alla giustizia, e a un adeguato risarcimento.